(titolato solo per necessità grafiche)

Avevo teso la mano verso il suo braccio. Lo stavo trattenendo, rischiando di cadere ad equilibrio già perso. Si era girata, o forse già guardava di qua, mentre il mio sguardo era basso, fermo.
Mi stacco. Freneticamente dopo essermi volutamente richiesto quel contatto mollo la presa e faccio tre passi indietro e uno,due in avanti
(alterzosonolabbracontrolabbranonpossoarrivarefinlì, troppo)
Lei, tempo fa, portava un cappello blu, buffo. Un cilindro tagliato da una fascia nera sulla base, ma non ricordo bene. Non lo aveva più, forse era stanco, lui.
Sono su di lei e lo sfregare della sua guancia è dolce, lo aspettavo. Sembrava fosse tentata ad avvicinarsi ancora. Stringevamo i fianchi altrui. Era calibrata, piccola.
(selatuamanoègstrettaadaltro/nostrosignorequelgiornonepensòunadellesue/
cosìsenonhainienteincontrariopuoistringerelamia/tihogvistaemiricordoanchedove/
dovremmovedercipspesso/oimparareafarlo)
Sorrideva, come nulla fosse e mi carezzava la spalla mentre passava in corteo nel fumo.
Avevo bruciato qualche pelo nell’accendere una sigaretta. L’avevo lasciato sul tavolo insieme ad un amico e al vino già deglutito. Al viscido sapore dell’anello sfilato dall’indice della mano sinistra.

L’unica verità inconfutabile è che quella scema urla!

(Piano)
Riconoscevo passi di donna lungo il corridoio, dal tocco leggero saliva piano di intensità. Rapidi, credibili. Ben lontani dalle fluttuanti camminate maschili i quali rintocchi si distanziavano di qualche istante in più bruciando quasi un metro a volta. Non veniva in qua.
(ACCELERA)
(La porta si apre; parla; ne chiude un’altra, piano; teme io dorma)
(Da Piano a Forte in due parole)
Una, due le mura che separavano il lavandino che scrosciava acqua bollente per sfiorarle il viso. Lo ustiona e trattiene la contrazione della carne, ora rossa.
(Piano)
Russa, ora.
(Da Piano a Forte in due parole)
Lontano, bevevo acqua da un bicchiere di coccio. Osservavo ogni piccolo rumore in cerca di distrazione. Lo spostamento di piedi nella notte, quando un colpo di tosse è sparo, (sempre che non piova) sbatte contro il legno dell’armadio.
(Da sé)
Ha aperto gli occhi.

Lettera a chi la vuole leggere. (già Lettera per Lei).

Un tempo era un sogno e dal porto avevo il silenzio dell’età. Passeggiavo lungo le piastrelle in cemento che costeggiavano il mare, con papà alla mano. Oggi mi aspettano gli uomini di “era”. Tu continua a sognare, imparerai. Perduta nelle pareti color d’acqua della tua casa. Instabile come ti hanno fatta, la colpa prendila tu.
Mi saluti dal nulla la strada sembra un’altra, forse sai che sei oltre la tempesta, la realtà. Guardo allo specchio mia madre piange un uomo è dietro me. Un’ombra ora cenere di “era”.
Sognerai, continuerai. Perduta tra le pareti inesistenti della tua casa. Continuerai, chiederai perchè, regalerai sguardi e sorrisi (illudi) che da incosciente hai sempre dato.
Dedicherò a me stesso il tempo perso dietro a persone a cui ti affidi per nulla. Ti cercherò magari in altri luoghi o chissà, tra persone a cui mi affido per nulla.
E’ colpa mia.

Io li ho letti tutti. (Con dedica).

Ero andato in camera a prendere il carica batterie del telefono, quasi scarico, ma momentaneamente necessario. Sono tornato con un Kinder Maxi e una caramella. Stasera avevo assistito al mutismo. Muto, me. Sordi loro.
Straordinario capacitarsi di quanto la divinità di turno
(oggi cos’è? sabato … toccherà agli animisti, li ho visti in diretta solo 102 ore finora)
affligga la tua zona di influenza con un doppio handicap a simboleggiare una separazione che pecca solo da un punto di vista: quello fisico. Così era. Così ero fermo all’angolo. Sempre fuori posto, in una sala buia colma di gente che guarda e saluta, non te.
(Fuori ce n’era altra ma non so cosa facesse, ero dentro.)
Fuori posto in un luogo in cui volevo tornare ogni qualvolta mi annoiassi. Successe spesso che decidessi di improvvisare una fuga da lì, sognando che qualcuno mi ci tenesse legato, sperando che qualcuno si fosse domandato dove fossi finito. Non successe, o meglio, non posso saperlo. Io ero fuori.
Il portone era stato aperto per ben una settimana perchè rotta la serratura. Le chiavi erano in fondo alla tasca, sotto al portafoglio. L’avevano aggiustato. Salivo le scale e mentre lo facevo mi pulsava il cuore a tal punto da vedere le immagini restringersi e riassestarsi a colpi regolari.  Non più raggiunta la cima, ma in rapida impennata.
Accesa la luce. Il calore passava dai termosifoni e il freddo della finestra (adoro le scelte equilibrate, idiota). Alla tv via cavo mancava il cavo. Un bicchiere d’acqua. Ero dentro, non c’erano, non sapevo cosa facessero, nè ora, nè prima.
…Dicevo?

Grazie, anche a te.

Vero! Lanciava occhiate vuote un po’ a tutti,
(ha inizio la fase di auto convincimento alla quale sono fiero voi assistiate)
mi dava come l’idea che con me ce l’avesse in particolar modo. Come fosse possibile non saprei spiegarlo viste le rare volte che ci siamo incrociati in giro e l’apparente mutismo che mi colpisce come un calcio nella bocca ogni qualvolta potrei farmi sentire.
…. Quanto meno il timbro, la cadenza. “Se è toscana rinuncia a priori!”
Talvolta sembrano più rozze delle romane. Talvolta in situazioni simili me ne esco con una qualsiasi banalità con un qualunque individuo vivo nel raggio di 5 metri solo per farle sentire il mio timbro di voce, la calata. E’ puro macismo. Essere convinto di riuscire (un piede sopra l’altro per acquisire qualche centimetro in più). Notare, amareggiato, che le sue orecchie non sono alte, come lo sarebbero prese da uno scatto di nervi dettato dagli alti decibel dei miei saggi interventi. Fosse un cane.
Percorreva il corridoio disinvolta nei suoi jeans biancastri. Immersa in boccoli neri. Scommisi con me stesso di indovinare a cosa stesse pensando. La sua camminata convinta e rapida trasudava una voglia di cibo della serie “èunamattinatainterachestoquiastudiaremicivolevanopurequellediecipagineinpdafareprimadipranzo! stamattina non le ho fatte. se mi sento in colpa? simisentoincolpapotevostudiareunpo’dipperderemenotempoafumare! diecipaginechevuoichesiano, in fondo (…) cazzo che fame” .
Credo che sia stato in quel momento che le è caduto il telefono a terra. Si è piegata e un leggero velo rosso ha coperto il suo viso. Graziosa. La camminata spavalda si è trasformata in una granitica, piccola corsetta eseguita quasi a quattro zampe tanta era la poca volontà di rialzarsi. Si dileguò fuori dalla porta.
Persa di vista, anche oggi. Non ha lasciato libri sul tavolo, non tornerà.

Ieri: Calo la maschera.

L’avevo conosciuta giù in città. Era solo una ragazzina venuta da molto lontano in una calda giornata di agosto. Indossava un vestitino a fantasie rosse e bianche che deformava in eccesso le sue curve ogni qualvolta venisse caricato da un soffio di vento. Occhi grandi, occhi grandi in cui si poteva scoprire un mondo parallelo. Ricordavo bene quelle ore perchè non mi degnò mai di uno sguardo … belle ore di merda.

Accendeva la sigaretta come fosse un’ arte per i pochi. Ovviamente, ogni volta che doveva girarne una scoprivo che non aveva filtri nè accendini con sè, mai, Allora cominciavo a fantasticare su quale fosse la miautilità lì, in quell’istante, spesso riducendola a una mera comparsata funzionale a soddisfare le sue necessità materiali e a sgretolare la breccia fragile della mia pazienza. Dopo il primo tiro mi regalava sempre uno dei suoi sguardi, Li spostava dalla fiamma al mio viso acceso. Acceso, forse, dalla voglia di darle un altro bacio, di rompere la lancetta dei secondi una volta per tutte … troppo impegnata a ticchettare nervosamente dettando regole a troppe persone, a me, a te. Troppe per poterle elencare qui.

Benevento fu fondata dall’eroe troiano Diomède, il fruttivendolo.

“la storia del limite alto è lineare perchè, tutto sommato, dettata dai progressi delle ricerche.”

Alzando la testa avevo due ragazzi di fronte a me. Lei tentava di leggere,
(o sta squillando un telefono o qualcuno ha il volume in cuffia troppo alto)
ma le piaceva distrarsi, illudere lui lanciandogli rapide occhiate dal fondo dei suoi occhiali spessi … lo fanno sempre. Lui fino a qualche mese fa frequentava una ragazza di un paese qui vicino. A dire il vero e senza un filo di cattiveria, era difficile distinguerne il sesso, ma almeno anche lei portava gli occhiali.

Tentavo di tenere lo sguardo basso, sul libro. Puntuale uno schioccare di tacchi rimbombanti nella sala grande mi faceva alzare gli occhi (l’adolescenza bruciata) : a volte valeva la pena, a volte di meno. Cambiando posto sentivo il gelo della sedia vergine battere ad aghi sul sedere svuotato di grasso, rabbrividivo aspettando si scaldasse agitando le gambe come un batterista virtuoso. Sui polpacci non avevo allungato le calze e sui piedi, è evidente, che non bastassero.
“Tre gradi” diceva il termometro.
Al mio fianco un uomo adulto, sulla quarantina, fascinoso. Sfogliava rapidamente le pagine di un grosso libro con un viso arricciato dall’espressione indispettita. Aveva pochi capelli, neri, che lasciavano libera una fronte molto alta. Mi chiedevo quanto freddo facesse a casa sua, o in qualunque luogo stesse vivendo quel momento, condividendolo con me e tanti altri. Forse era carico di vestiti quando gli sarebbe bastato un cappello. Di fronte aveva un computer che andava in modalità “stand-by” a riprese continue o almeno ogni qualvolta non si curasse, tradendo il cruccio, di sfiorarlo.
Mi ricordava il mio professore di storia del liceo,
(faceva anche filosofia ma questo dettaglio è irrilevante e preferirei passasse celato nella prigione delle parentesi)
quello che ogni qualvolta si parlasse di totalitarismi apostrofava quello russo come Stalinismo (distinzione necessaria ma, pare, sconosciuta ai molti, anche agli improvvisati costituzionalisti della Rete Tv nazionale): uno dei motivi per cui ha avuto sempre la mia simpatia e per cui ne godrà, di riflesso, l’uomo che mi siede accanto.

Nel frattempo la guardavo di sfuggita, nella distrazione da taccuino, cercando di capire cosa poter aggiungere.

Se tu fossi un cane saresti il mio cane.

Federico ha 8 anni e un senso di appartenenza un po’ particolare. Continua ad affermare che la proprietà della mia persona sia sua. Sembra quasi percepisca prematuramente quella raffica di sentimenti effimeri che lo porteranno tra qualche tempo a spostare la sua attenzione su soggetti dalla voce più dolce (della mia) e il centro catalizzatore dei suoi ragionamenti un po’ più a sud, sul bacino. La sua ingenuità mi sorprende quanto lo fa la mia capacità di nascondermi a lui.
” 82 è uscito? ” chiedeva alla nonna spazientita che con aria di stizza lo taceva con un “no” come, pudicamente, avrebbe fatto di fronte all’offerta sessuale di uno sconosciuto qualunque.
Così tornava a riguardare la sua mano: ogni qualvolta qualcuno provasse ad arrestare la sua fantasia, tutte le volte che chi gli sedeva accanto non lo degnava di uno sguardo a una sua richiesta, quelle volte che qualcuno non sobbalzava al suo tocco. Federico rivedeva nella sua mano la scena come si sarebbe svolta se il capitato accanto avesse percepito la dolcezza che metteva in ogni parola, ogni gesto. Uno schermo. Non aveva bisogno di staccare il cervello o chiudere gli occhi, di canticchiarsi una canzone dal suono dolce o contare fino a dieci per stendere i nervi. Abbassava lo sguardo e riponeva la mano in posizione orizzontale proiettandola in un lento cammino verso il viso, fino al punto d’incontro. La distanza contava a poco. Tutto stava nella solidità dello sguardo.

(Con la presente approfitto per spiegare a mia sorella che, se durante il gioco della tombola più persone nello stesso momento fanno ambo, la posta in palio non tocca a chi per primo reclama la vittoria, ma a tutti coloro che sono incappati nel dolce trappolone di essere vincitori di dieci centesimi di euro con cui comprare metà di una caramella al Bar Kennedy sotto casa. Via Tisia 43, credo.)

Ecco. La luce gialla. L’albero più alto di lui di qualche metro, finto (agli enormi abeti a facile combustione importati con amore dal Canada che rallegravano le famiglie americane e i fuochi notturni di fortunati disperati avevamo smesso di crederci presto). Le cartelle colorate che segnavano in ogni angolo un tavolone di legno scuro (gli abeti!). Gente. Gente raggruppata nella sua mente in modo confuso seguendo un ordine d’affetto simile: mamma, papà, nonno, nonna, nonna, nonno, zio, zia, zia, zio, cugini vari in un unico sottoinsieme che pare non comprenda il sopravvalutato sottoscritto collocato provvisoriamente ai primi posti.
La nonna lo baciava e sorrideva. Il numero non era uscito ma la risposta non era stata secca e meno pesante risultava la sensazione di sconfitta già giunta per non aver completato la cartella. Era scappato un sorriso.

Il 58 captò la sua attenzione distogliendolo dal momento di svago: ora la mano serviva a segnare i numeri.
( … )
Ne bastarono altri due per sciogliere il muro di pazienza che Federico aveva costruito in quei pochi anni, e quella sera. La sua voglia di sedere al tavolo calò di botto. Si alzò spazientito rigando la sedia sul pavimento e digrignando i denti dalla rabbia. Le urla isteriche della madre, le sue minacce, il sentimento caritatevole del fratello minore che dal suo sorriso pareva volesse dire “tanto è solo un gioco” non placarono il suo animo. Scomparve dietro l’uscio della porta della sala da pranzo illuminata.
Peccato, l’82 era uscito.

L’avevo detto.

Tre delle quattro vittime stanno soffrendo di più. A terra fango dappertutto.
Nessuno ci aveva avvisato su quanto stesse per accadere. Non si erano degnati perchè avevano da fare. Cosa non saprei descriverlo ma era importante, pare. Avevo perso la casa e aiutavo tanti a ricostruire le loro perchè ci sentivamo uniti. Ora. Quando sento calcinacci e ustioni sul corpo nudo.
Eppure ieri non avrei salutato la signora del quinto piano di cui ora riesco a vedere solo una mano. La saluto, da lontano.

Quel giorno Omar si era preso la febbre.

Dopo le minacce ripetute di pioggia andate avanti quella mattina per più di sei ore, era rimasto solo un freddo pomeriggio di metà settembre senza pozzanghere a terra né in aria dove l’acqua promessa aveva fatto spazio a nuvole grigiastre e a un sole tiepido calante che, vista l’ora, non accecava più gli occhi. Per strada i soliti visi di pochi giorni prima:
(forse solo più rintanati nei caldi cappotti strappati dall’armadio con furia prematura)
chi ,contro le regole,guardava con spavalda indifferenza : spalle allargate all’ennesima potenza manco dovessero spuntarne le ali tenendo le braccia leggermente all’infuori, mani in tasca e testa alta; chi guardava quasi portasse rancore pur cosciente che il vostro è un primo incontro; chi si girava dall’altra parte come un timidone o con una foga come se si trovasse con sorpresa ad essere l’ impressionabile spettatore di un omicidio. Nel frattempo due macchine facevano retromarcia contemporaneamente in una stradina larga 4 metri, ad occhio. Rischiando di investire il flusso dei passanti e lui. Un vecchio guardava uno dei due conducenti con l’aria del “occhio che se mi prendi sai quanti soldi ti faccio piangere?” lo seguiva divertito.
Doveva recarsi ad un incontro con una ragazza.
Fraintendete sempre eh?! No! No! Non inventerò quelle innocenti bugie adolescenziali (e non) come : “è solo un’amica!” … perchè non lo era.
Si dà il caso che il sovra citato non conoscesse l’essere di sesso femminile (mi si passi il termine) che stava andando a conoscere.
(mi auguro vivamente che i più non stiano pensando a una cosa tipo “appuntamento al buio”)
Ok per sfatare l’alone di mistero creato: si stava recando ad un incontro con la direttrice di una piccola casa editrice che l’aveva contattato dopo che lui aveva forsennatamente ricercato contatti per pubblicare la raccolta dei suoi racconti.
(Sorpresa)
E come nei migliori film
(squallidissimi e ormai scontati, eppure continuano a produrne)
proprio quando aveva perso le speranze, era apparsa la soave voce telefonica della signora Marinetti che, dall’alto dei suoi sessant’anni capelli bianchi figlia laureata in giurisprudenza “di cui vado molto fiera” marito ormai pensionato casa di dimensioni normali due bagni due camere salotto con camino cucina spaziosa terrazzino fumatrice di sigarette accanite e ogni tanto (per sfizio) di sigari cubani
…la soave voce…che poi con due bagni in due che ci fai…
(virgola subito dopo cubani)
aveva richiesto il fatidico incontro.

Se era emozionato? Bè si. Lui che non aveva né case, né figli laureati, né sessant’anni lo era eccome. Aspettava da molto tempo questo momento. E sono convinto che , anche se diceva di scrivere solo per sé stesso, almeno una monetina da un euro sulla sua carriera ce l’aveva puntata. Via San Filippo Neri numero 45. Peccato che era ancora al numero uno. Due tiri di sigaretta ed era bello e arrivato, i portoni molto vicini e il suo passo svelto avevano facilitato il gioco.
Per conoscere il suo temporaneo destino doveva salire due rampe di scale suonare al campanello e attendere che tutto si svolgesse con la naturalezza e la poca spensieratezza che fino a quel momento l’aveva contraddistinto.
“Buonasera Signora,ci siamo sentiti pochi giorni fa…scrivo racconti, si ricorda?”
Si ricordava,lei. Era una donna molto attenta al dettaglio. Lo fece sedere alla scrivania di quello che pareva uno studio ricavato da una stanza da letto: libri,luce soffusa accesa sul tavolo e fumo di sigarette impiastrato nelle pareti e nelle tende…
(mamma lo sa bene e mi odia per questo)
da fumatore,non disprezzava.
Senza troppe chiacchiere spiegò i motivi per cui gli scritti che aveva ricevuto erano stati valutati validi
(l’ambiguo uso del plurale non ha un riferimento ben preciso, forse li aveva valutati solo lei)
e lo fece mentre scorreva le pagine del manoscritto con l’interesse effimero che un professore medio all’università traspare dal viso mentre lo studente si sbatte cercando il linguaggio più raffinato e dettagliato per dimostrare la sua preparazione. Le posizioni quel pomeriggio erano le stesse, in effetti. Uno da una parte e uno dall’altra, nemici-amici.
Di soldi non si parlò. Di quelli che lui avrebbe ricevuto… di quelli da versare all’Egregia Signora Marinetti Via San Filippo Neri 45 int.7 se ne parlò eccome ma non mi/vi annoierò sentenziando su quest’aspetto.
Classico momento di silenzio. La signora si accese la prima sigaretta dell’incontro, lò guardò fisso negli occhi staccandoli dai fogli sparsi e chiese: “se dovessi descrivere, nello stile che ti appartiene e con realismo e sincerità, questo e gli attimi precedenti a questo momento come lo faresti?”
Gli occhi di lui girarono verso un punto indistinto in alto come in atteggiamento pensieroso di chi aspetta di avere l’illuminazione.
(nel frattempo la similitudine tra l’incontro e l’esame si fa sempre più stretta)
“Posso accendermi una sigaretta?”
Fiamma.
Fumo.

“Mi stavo recando ad un incontro con la direttrice di una piccola casa editrice che m’aveva contattato dopo che avevo forsennatamente ricercato contatti per pubblicare la raccolta dei miei racconti.
E come nei migliori film
(squallidissimi e ormai scontati, eppure continuano a produrne)
proprio quando avevo perso le speranze, era apparsa la soave voce della signora Marinetti
(Via San Filippo Neri 45 int 7. fumatrice accanita di sigarette o..sigari, non saprei ben dire)
che aveva richiesto il fatidico incontro.
Se ero emozionato? Bè si. Lo ero eccome. Aspettavo da molto questo momento.
Via San Filippo Neri numero 45. Peccato che ero ancora al numero uno. Due tiri di sigaretta ed ero bello e arrivato: i portoni molto vicini l’un l’altro e il mio passo giovane e svelto avevano facilitato il gioco.
Per conoscere il mio temporaneo destino dovevo salire due rampe di scale, suonare al campanello e attendere che tutto si svolgesse con la naturalezza e la poca spensieratezza che fino a quel momento
(bene o male) mi aveva contraddistinto.
“Buonasera Signora,ci siamo sentiti pochi giorni fa…scrivo racconti, si ricorda?”
Si ricordava,lei. Era una donna molto attenta al dettaglio. Mi fece sedere alla scrivania di quello che pareva uno studio ricavato da una stanza da letto: libri,luce soffusa accesa sul tavolo e fumo di sigarette impiastrato nelle pareti e nelle tende… da fumatore,non disprezzavo.
Senza troppe chiacchiere spiegò i motivi per cui gli scritti che aveva ricevuto erano stati valutati validi (l’ambiguo uso del plurale non ha un riferimento ben preciso, forse li aveva valutati solo lei) e lo fece mentre scorreva le pagine del manoscritto con l’interesse effimero che un professore medio all’università traspare dal viso mentre lo studente si sbatte cercando il linguaggio più raffinato e dettagliato per dimostrare la sua preparazione. Le posizioni quel pomeriggio erano le stesse, in effetti. Uno da una parte e uno dall’altra, nemici-amici.
Nel caso ve lo steste chiedendo di soldi non si parlò, di quelli che avrei ricevuto… di quelli da versare all’Egregia Signora Marinetti Via San Filippo Neri 45 int.7 se ne parlò eccome!
Erano 300 euro. Spesa che comprendeva: pubblicazione, numero 60 di copie e pagamento e affitto della libreria per la presentazione con data ancora da fissare, ovviamente. Accettai. Il mio era un ingenuo esperimento, ero ancora giovane per puntare in alto e risposi come su riportato.

Classico momento di silenzio. La signora si accese la prima sigaretta dell’incontro, mi guardò fisso negli occhi staccandoli dai fogli sparsi e chiese: “se tu dovessi descrivere, nello stile che ti appartiene e con realismo e sincerità ,questo momento come lo faresti?”
Ricordo che i miei occhi slittarono automaticamente verso l’alto a inquadrare una indistinta posizione nel vuoto, cosa che facevo anche agli esami subito dopo una domanda la cui risposta deve ancora raggiungere il cervello e sgorgare dalla potenza delle corde vocali.

“Posso accendermi una sigaretta?”
Fiamma.
Fumo.

E così via.